Qualunque spettatore si trovi a guardare le opere del Maestro Sgaravatti si potrebbe chiedere dov’è la Ninfa Egeria che passeggia nel boschetto sacro, oppure, che sembianze ha assunto nelle strisce intrecciate di cartone? Ancora, si potrebbe domandare che fine ha fatto la Sacra Famiglia nel Secondo riposino nella fuga in Egitto, o cosa ci fa un passeggero nella Scatola di Scarpe? Sebbene non si possa dare una risposta certa e convenzionale a queste domande, proprio per non cadere nella banale “catalogazione” della poetica artistica, credo sia necessario risalire alla matrice originaria della sua formazione. Non mi riferisco, cioè, al semplice apprendimento che ha preceduto la sua produzione, ma a quei semi rinchiusi nell’alveo dell’inconscio attraverso i quali ha germogliato il fiore dell’istinto creativo.
Per questo percorso credo abbia contribuito, in primis, la botanica, che è stata per il nostro autore, grazie alla nota attività di famiglia, una straordinaria “musa ispiratrice” dì idee, di soggetti, di colori e di forme. Anche se, bisogna dire, il Maestro interpreta la radice naturalistica nel totale rifiuto della mimesis, ovvero della mera imitazione del vero, orientando la sua ricerca della realtà naturale verso una rappresentazione sincera e spontanea che mira a svelarne l’essenza: come la natura è un fenomeno in costante e ciclico mutamento, libero da ogni previsione, esattezza, omogeneità cromatica, materica e lineare, così anche l’esperienza astratta di Eugenio esprime un linguaggio svincolato da qualunque schiavitù formale.
Questo si coglie, ad esempio, in Città sotto la pioggia, dove protagonista indiscusso è il diluvio nella sua potenza atmosferica: nel dipinto si vedono soltanto macchie, punti e segmenti cromatici che sovrapponendosi, giustapponendosi e fondendosi, in un andamento rapido e vorticoso, annullano ogni parvenza o definizione di immagine, come se l’intera città sparisse sotto la pioggia, o più ancora si compenetrasse con essa in un’unica forza naturale. Oppure si scopre in Paesaggio autunnale dove ciò che rimane è l’immediata emozione nel guardare quei colori tipicamente stagionali, come l’ocra, il rosso, l’arancio, il ruggine, il grigio plumbeo, il blu cobalto combinarsi in turbinio di macchie, sgocciolature e pigmenti.
Il suo andare oltre la forma, quindi, non significa negare la veridicità naturale, ma rivelarne una visione del tutto emotiva e spirituale. Per questo traguardo credo che prima ancora della pittura astratta, d’origine kandiskiana, abbia inciso la radice veneta dell’autore, veneziana in particolare. In opere come La mano degli avvocati, Cascata astratta, Dancing under thè rain, sembra quasi di vedere quelle squisite reminescenze del mosaico bizantino della Basilica Marciana, ultimo bagliore medievale dell’Impero di Costantinopoli. Esso rivive, almeno in parte, nell’armonico accostamento di campiture cromatiche, piatte e quadrangolari, alternate e giustapposte, come le tessere ia di una trama musiva che sembra voler citare o simboleggiare l’antico splendore della chiesa della Serenissima.
Tuttavia è lampante che il nostro artista rifiuti quella costruzione figurativa e illustrativa dei mosaicisti greci, recuperando soltanto il senso astratto e idealizzante di quelle immagini sacre dalla ieratica e austera frontalità che ancora campeggiano sulle cupole di San Marco. Un po’ come se le icone sacre dei mosaici veneziani fossero state smaterializzate e depurate da qualunque parvenza di vero, come se ne fosse rimasto soltanto l’alone spirituale intriso nelle tessere aniconiche o nella preziosità dell’oro che si vede sgocciolare in Oro colato.
In altri termini si può dire che Eugenio compie un processo inverso rispetto al mosaicista bizantino, se questi ha composto le tessere per costruire le immagini, lui le ha idealmente messe insieme per distruggerle o trasfigurarle. Distrugge per poi ricostruire. Per questo ha senz’altro contribuito la poetica informale che si riallaccia, almeno in parte, ai pionieri italiani dell’Avanguardia, come Alberto Burri e Lucio Fontana.
Similmente all’esperienza di questi due Maestri, il nostro autore si cimenta verso la ricerca di uno spazio che va al di là della semplice tela: oltre ad utilizzare “materiali alternativi”, come il laminato, la cartapesta e il cartoncino, lavora la superficie come un qualcosa che dialoga con l’esterno attraverso un linguaggio segnico in parte affidato alle leggi del caso, in parte a gesti istintivi, a volte irruenti e deturpativi. Tutto questo interviene, in maniera volutamente contrastante, su un’armonica trama cromatica e materica dove la musicalità d’ispirazione kandiskiana non riguarda soltanto i colori, ma anche il supporto di materiali differenti che si combinano secondo un ritmo dinamico fatto di pause, alternanze e ripetizioni.
Infine, sebbene sia vero che Eugenio, attraverso questa estetica abbia deturpato o in molti casi distrutto il figurativismo, è anche vero che con questi stessi mezzi l’abbia ricostruito o più ancora l’abbia fatto resuscitare. Un po’ come se con questo lessico gestuale e musicale raccontasse una storia fatta di suoni, di immagini archetipe, mitologiche e simboliche, come se avesse sublimato e purificato le forme da ogni artificio o retorica tradizionale e le avesse riportate alla stato primordiale ed essenziale.
È possibile, insomma, scorgere in questa produzione artistica, una sorta di linguaggio segreto che non impone nessun tema visivo allo spettatore, ma lo mette nella condizione di crearselo da sé con l’intuizione e le emozioni che riceve. Spetta al fruitore leggerlo e decifrarlo, riunire le tessere musive, riordinare, riassestare e ricomporre le forme. Spetta sempre a lui ritrovare la Ninfa Egeria, il suo cavallo, l’Arbor Vitae e tutto il resto. Un po’ come l’universo che si è formato dopo l’esplosione del Big-bang.
Viviana Vannucci
Maestro Eugenio Sgaravatti
"La pittura di Sgaravatti è, al contrario, comunicazione allo stato puro, intesa ma non immediata perché legata alla riflessione, alla compenetrazione nelle tinte che la sua anima sensibile quanto geniale."
Marino Collacciani
“Sono tracce di un passato, di un trascorso esistenziale alle volte accentuato o attenuato dalla cadenza offerta dai piccoli segni che la sapiente mano dell’artista ha lasciato sulla superficie.”
Giovanni Lauricella
"Le sculture povere ma liricamente fiere, monumentali e allo stesso tempo ariose di Eugenio Sgaravatti sbandierano una certa giocosità"
Barbara Mastrusciello
“Reminescenze figurative, come grattacieli o paesaggi, vagheggiano nell'ignoto di un sublime astrattismo frutto di un complesso iter di trattamenti e lavorazioni.”
Miriam Monteleone
“Questione di impronte, quelle che Eugenio Sgaravatti imprime sulle proprie opere: ripetuti, regolari, come un mantra, i piccoli cerchi popolano silenziosi la superficie del quadro. Questione di sfumature, quelle dei colori, sovrapposti, irregolari, eppure monocromi e volatili come gli umori che cambiano, le sensazioni che ci attraversano e le variazioni della luce nel cielo. Questione di parole che commentano o stridono con i colori e che immerse in essi acquistano altri significati, leggeri profondi, inaspettati.”
Bartolomeo Pietromarchi